Il 21 ottobre la Corte europea dei diritti dell'uomo, nel caso denominato Sharifi e altri contro Italia e Grecia, ha condannato nuovamente l'Italia per aver respinto indiscriminatamente un gruppo di richiedenti asilo verso un Paese “non sicuro”.
La pronuncia, che interviene a ormai circa 6 anni dai fatti, richiama ampiamente le argomentazioni sviluppate in due delle sentenze più significative degli ultimi anni in materia di respingimenti (M.S.S. c. Belgio e Grecia del 21 gennaio 2011 e Hirsi Jamaa e al. c. Italia del 23 febbraio 2012).
Nel caso di cui ci occupiamo oggi, così come in M.S.S., il luogo di destinazione "non sicuro" si trovava non sul territorio di un Paese terzo, ma su quello di uno Stato membro dell'UE (la Grecia), e la Corte ha condannato nuovamente la messa in atto automatica da parte degli Stati membri del meccanismo previsto dal regolamento Dublino.
Nello specifico, a detta della Corte, respingendo senza previo esame individuale né possibilità di ricorso un certo numero di cittadini stranieri verso la Grecia – Stato membro di primo ingresso nell'UE, ripetutamente condannato per le insufficienze del suo sistema di asilo (vedi da ultimo la sentenza H.H. c. Grecia del 9 ottobre 2014) – l'Italia ha violato tre disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU):
l'art. 4, protocollo 4 (divieto di espulsioni collettive di stranieri);
l'art. 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti);
l'art. 13 (diritto ad un ricorso effettivo), in combinato disposto con l'art. 3 CEDU e l'art. 4, protocollo 4.
Da parte sua, la Grecia, non garantendo ai cittadini di Paesi terzi, respinti dall'Italia, di accedere alla procedura nazionale di asilo né, per l'effetto, di non essere ulteriormente respinti verso Paesi di origine o di transito, a loro volta non sicuri, è stata condannata per aver violato l'art. 13 CEDU in combinato disposto con l'art. 3 CEDU.
Queste conclusioni, che interessano esclusivamente i quattro ricorrenti rimasti in contatto con i loro avvocati nel corso dell'intera procedura, sono state adottate all'unanimità dai giudici della seconda sezione e argomentate come qui di seguito riportato in estrema sintesi.
I. I fatti all'origine del ricorso
Tra il 2007 e il 2008, i ricorrenti (32 cittadini afgani, 2 sudanesi e 1 eritreo)
sono fuggiti dai loro Paesi di origine per cercare in uno degli Stati membri la protezione internazionale garantita dall'ordinamento dell'UE. Tuttavia, giunti via mare in diversi porti delle coste adriatiche dell'Italia (Bari, Ancona e Venezia), dopo essere transitati sul territorio greco, i ricorrenti sono stati automaticamente reimbarcati dalle autorità italiane su traghetti diretti verso la Grecia.
Le autorità greche hanno sottoposto alcuni dei ricorrenti, respinti dall'Italia, a detenzione amministrativa, mentre hanno lasciato altri “liberi” di circolare, senza una fissa dimora.
Dalle notizie riportate alla Corte dal legale rappresentante (Avv. Ballerini), oggi alcuni dei ricorrenti vivono per le strade della Grecia, altri si sono trasferiti in diversi Stati (Svezia, Svizzera, Norvegia, Italia), e altri ancora sono stati deportati in Afganistan.
II. Analisi giuridica della Corte
Superata la prima questione d'irricevibilità relativa alla non autenticità delle procure ad litem e rimandata la seconda sul mancato esaurimento delle vie di ricorso greche all'analisi nel merito, in via preliminare la Corte si vede costretta a cancellare la causa dal ruolo con riferimento a tutti i ricorrenti che non abbiano potuto o voluto mantenere vivi, nel corso dell'intera procedura, i contatti con il loro legale rappresentante.
In seguito, la Corte procede con l'analisi di merito, prendendo in considerazione dapprima le presunte violazioni commesse dalla Grecia e successivamente le presunte violazioni commesse dall'Italia.
a) Sulla violazione da parte della Grecia del diritto ad un ricorso effettivo (art. 13 CEDU) in combinato disposto con l'art. 3 CEDU e del divieto di trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU)
Violazione dell'art. 13 in combinato disposto con l'art. 3 CEDU
La Corte ricorda innanzitutto il principio generale: l'art. 13, in casi di rischio di violazione dell'art. 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti), richiede l'esistenza di una via di ricorso disponibile sia in diritto sia nella pratica, avendo la Convenzione come obiettivo quello di proteggere diritti non già teorici ma concreti ed effettivi. (par. 167 e 168 della sentenza)
Nel caso di specie, la Corte considera in primo luogo che la situazione di instabilità registrata in Afghanistan era tale che la doglianza dei ricorrenti relativa a un rischio di subire, in caso di rinvio verso quel Paese, dei trattamenti contrari all'art. 3 CEDU meritava di essere esaminata nel merito da parte di un'autorità nazionale. (par. 174)
In secondo luogo, la Corte constata che le perduranti carenze del sistema di asilo in Grecia, in particolare in materia di accesso alla procedura, informazioni ai richiedenti asilo, mancanza di interpreti, durata eccessiva dell'esame, etc.. hanno seriamente pregiudicato la possibilità dei ricorrenti di accedere alla procedura nazionale di asilo. Ciò a prescindere dal fatto che essi volessero o meno chiedere asilo in Grecia (argomento avanzato dal governo greco): il rischio di un loro respingimento verso l'Afghanistan era concreto e costituisce una ragione sufficiente per ritenerli portatori di un interesse specifico ad avvalersi di un ricorso effettivo ai sensi dell'art. 13 CEDU (par. 179 e 180)
Pertanto, la Corte ritiene che vi sia stata una violazione da parte della Grecia dell'art. 13 in combinato disposto con l'art. 3 CEDU.
Violazione dell'art. 3 CEDU
I ricorrenti lamentano di aver subito trattamenti contrari all'art. 3 CEDU sia sulle navi di ritorno verso la Grecia sia sul territorio greco e nei centri di trattenimento.
La Corte tuttavia rigetta il ricorso su questo punto, in quanto i ricorrenti non sono stati in grado di fornire alcun dettaglio in merito ai trattamenti subiti, ai centri dove sarebbero stati trattenuti e alla durata e alle condizioni del trattenimento. (par. 184 e 189)
Pertanto, la Corte dichiara irricevibile la richiesta di condanna alla Grecia per violazione dell'art. 3 CEDU
b) Sulla violazione da parte dell'Italia del divieto di espulsioni collettive di stranieri (art. 4, protocollo 4) del divieto di trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU) e del diritto ad un ricorso effettivo (art. 13 CEDU).
Violazione dell'art. 4, protocollo 4
Quanto alla violazione del divieto di espulsioni collettive (art. 4, protocollo 4), in via preliminare la Corte richiama la sentenza resa nel caso Hirsi, per ricordare che lo scopo dell'art. 4, protocollo 4, è quello di impedire agli Stati membri di respingere un certo numero di cittadini di Paesi terzi senza il previo esame della loro situazione personale e senza aver dato loro la possibilità di esporre le proprie argomentazioni contrarie alla misura. L'art. 4, prot. 4, ricorda la Corte, vale sia durante le operazioni d'intercettazione svolte in mare aperto sia, logicamente, nei casi di diniego di accesso al territorio nazionale. (par. 210 e 212)
In seguito, la Corte, dopo aver appurato, alla luce delle prove fornite dalle parti, l'esistenza di una prassi consolidata di rinvii automatici e indiscriminati dall'Italia alla Grecia, ricorda che detta prassi non trova alcun fondamento normativo nel regolamento Dublino. Richiamando la sentenza resa nel caso M.S.S., la Corte ribadisce infatti il principio secondo il quale, nell'applicare la regola che attribuisce allo Stato membro di primo ingresso (nel caso di specie la Grecia) la competenza in materia di asilo, l'Italia doveva procedere a un previo esame individuale della situazione di ciascun ricorrente, in quanto nessuna forma di espulsione collettiva e indiscriminata potrebbe essere giustificata dal Regolamento Dublino. (par. 223)
I giudici di Strasburgo sottolineano insomma ancora una volta come le difficoltà che gli Stati possono incontrare nella gestione dei flussi migratori o nell'accoglienza dei richiedenti asilo non possono giustificare il ricorso a pratiche incompatibili con la Convenzione o i suoi Protocolli. (par. 224).
Pertanto la Corte ritiene che vi sia stata violazione da parte dell'Italia dell'art. 4, protocollo 4.
Violazione dell'art. 3
Quanto alla violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti connessa al rischio di un respingimento arbitrario dei ricorrenti verso un Paese terzo non sicuro quale l'Afghanistan (art. 3 CEDU), la Corte continua a citare la sentenza resa nel caso M.S.S., per concludere sulla responsabilità dell'Italia. In altri termini, così come il Belgio nel caso M.S.S., l'Italia nel caso di specie, prima di espellere i ricorrenti verso la Grecia, aveva il dovere di accertarsi della funzionalità del sistema nazionale di asilo greco e, quindi, di assicurarsi che questi non corressero alcun rischio di essere successivamente respinti verso il proprio Paese di origine dove avrebbero rischiato di subire trattamenti inumani o degradanti. (par. 232)
Avendo già condannato la Grecia per la violazione dell'art. 13 in combinato disposto con l'art. 3 proprio per il rischio di espulsione dei ricorrenti dalla Grecia verso l'Afghanistan, la Corte ritiene che l'Italia, rinviando – peraltro in maniera collettiva – i ricorrenti verso la Grecia, abbia violato l'art. 3 CEDU.
Violazione dell'art. 13 in combinato disposto con l'art. 3 e l'art. 4, protocollo 4
Infine, quanto alla violazione del diritto ad un ricorso effettivo (art. 13 CEDU) in combinato disposto con i divieti di espulsioni collettive di stranieri (art. 4, protocollo 4) e di trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU), la Corte – alla luce di tutto quanto detto sopra – non può che constatare la sussistenza di un legame diretto tra le espulsioni collettive messe in atto dalle autorità italiane e l'impossibilità dei ricorrenti di accedere a una procedura conforme al dettato dell'art. 13 CEDU.
Pertanto la Corte ritiene che vi sia stata violazione da parte dell'Italia dell'art. 13 CEDU, in combinato disposto con gli art. 3 e 4 protocollo 4.
Vai alla sentenza della Corte nel caso Sharifi e altri contro Italia e Grecia